lunedì 11 ottobre 2010

Crime Story Slam 2010, primo classificato

Primo classificato
ALESSANDRO MANZETTI
IL POSTO NERO

Il Posto Nero è piccolo e stretto. I miei occhi possono osservare solo pochi centimetri. Distinguere lentamente gli atomi del buio accatastati come tanti libri immobili. Le braccia e le gambe sono inutili, i muscoli chiusi dentro iniziano a non ricordare più la loro natura. Motori spenti. La mente è ora la più grande nemica. La mente che può viaggiare ovunque e passare attraverso il legno, la terra umida, lo spazio. Salire su un albero e guardare la mia buca, il prato intorno. Gli innaturali segni dello scavo, le foglie che iniziano a coprire tutto. Le colonne delle formiche che si scambiano la nuova consapevolezza attraverso milioni di segnali chimici. L’ossigeno qui dentro si esaurisce lentamente. La mente è proprio una nemica eccezionale, gonfia i polmoni con i ricordi. La grata degli alveoli si trasforma in un grande proiettore. Nel sangue arrivano solo facce confuse, frammenti di esistenza. La mente ti fa morire molto più lentamente. Provo a spingere il coperchio della mia bara. Provo con le mani e le ginocchia. E’ davvero impossibile uscire. Anche se non esistessero metri di terra sopra di me e interi quartieri di vermi appena costruiti. Il mio cielo ora è di legno e l’universo ha le stelle di argilla, ciottoli e sedimenti di quarzo. Caratteristiche di questa zona, di questo terreno. Del prato rettangolare dove sono sepolto. La mia gabbia toracica pulsa. Il cuore incastrato tra le costole inizia ad agitarsi, a darsi delle risposte. A capire quello che mi è accaduto. Sono qui perché ho sbagliato, lo so. Me lo merito. Inizio a pentirmi. Dovevo capirlo prima di finire in questa ruvida cassa di legno. Con i denti dei chiodi che mi strappano i tessuti ad ogni movimento. Nessun cuscino di seta, nessun vestito elegante. Solo la mia pelle che respira sempre più anidride carbonica e rimorsi. Sono sudato fradicio. Non ho mai sentito il mio odore con questa precisione. Non mi sono mai conosciuto fino in fondo. Il momento si avvicina, sto morendo soffocato. Sono pentito del tutto ora. Ma è troppo tardi ormai. Non mi rimangono che gli ultimi orribili secondi. Sarà come una scossa elettrica, mi fratturerò gli arti per cercare l’impossibile liberazione. Poi anche la mente si spegnerà, dopo aver prodotto le ultime oniriche immagini. Un abisso, un gruppo di corvi in cerchio. La caduta infinita nella bocca di un mare di fango. Per un solo istante tornano i sapori e le voci delle persone amate. E’ finita, meglio uscire da qui prima che sia troppo tardi. Riapro la cassa di legno, ormai non ne potevo più. Un sole verticale mi colpisce. Non riesco ancora a vedere bene, i colori si spostano lentamente dalla retina al cervello. Sono felice, soddisfatto. Ho capito cosa si prova. Cosa ha provato lei quando l’ho sepolta viva, specialmente dopo. Si sarà pentita anche lei dentro la cassa di legno. Avrà visto l’orribile abisso. Non mi aveva lasciato nulla, a parte i graffi sul viso e sulle braccia. Non voleva accettare il suo destino, la sua nuova casa. Non mi aveva lasciato altro che miseria e tristezza. Avevo fatto tutto per lei, la amavo così tanto. Non doveva tradirmi. Era bella e luminosa come una costellazione. Probabilmente quella del Serpente, l’unica divisa in due tra testa e coda. Anche il suo cuore aveva una testa e una coda. Mentre fissavo i chiodi sul coperchio cercai di farle capire quanto l’amassi. Non mi ascoltò. Rispondeva con calci e pugni. Grida isteriche. Come al solito. Voleva liberarsi ancora. Liberarsi di me. Avevo dovuto colpirla, ma dentro si sarebbe svegliata. Torno in casa, ho bisogno di una doccia. Più tardi ricoprirò la mia buca e sistemerò il giardino. Innaffierò i miei bellissimi fiori, che non hanno gambe per fuggire via.

«Non ne posso più, ho bisogno di vivere la mia vita».